Saremmo tentati, per ciò che riguarda le acqueforti specie degli ultimi anni di
Agostino Zaliani, di invitare, per paradosso, oltre che a guardarle ad ascoltarle,
a prendere spunto dalle immagini per riudire i suoni che suggeriscono: il placido
scorrere delle rogge con il gorgoglio dei mulinelli tra gli sterpi secchi e le gore
folte di arbusti, frusciare accarezzante della brezza serotina che piega gli steli
dell'erba; il gran rumorio del fogliame che alla stessa ora accoglie il ritorno
degli uccelli e si interpone all'aria giocando fra terra e cielo con masse volatili
di verde.
Il suono della campagna con qualche battito di lamiera, in un cascinale abbandonato;
raschiato e stridulo il barcollare di un cancello sui cardini; la grande e indistinta
voce della pianura che si lacera di quando in quando per il richiamo di una cornacchia.
Una quiete fatta di bassi continui e di fischi. Mormorare di focolari, di nebbie
ovattanti; campane, ruote dei mulini non più usate, pietrame da ripa che dà rifugio
ai ranocchi, alle serpi, ciascuno con i suoi rumori.
È abile e discreta la mano di Zaliani che raccoglie questo erbario sonoro; si ferma
a scrivere ogni foglia, ogni stelo, il riflesso di una luce sui bordi dei ciuffi
di erbaggi, e ancora si dilunga a dare presenza alle ramaglie secche e alle cortine
murarie dei casolari rustici animate solo dalle muffe, dalle vene d'acqua. Si potrebbe
obbiettare che questo tipo di disegni aveva giustificazione fino a un secolo fa;
eppure è proprio nel contesto odierno che tali moderate meditazioni figurative hanno
senso, dimensione morale e mentale, stabiliscono approdi di necessità, confermando
contenuti umani, stimolando pensieri di contrasto con il restante assordamento,
inducono a contenere il nostro vizio di ansia e di disordine, ci fanno, insomma,
da guida in un clima che, sembra impossibile, pure era il nostro, è stato il nostro
fino a non molto tempo addietro.
Il mito del moderno, del frettoloso, del cenno e via, ignorato per una battaglia
persa sul vero, su quel reale che tanto sta a cuore dell'autore da sentirne il turbamento
poiché lo sa, lo sente, condannato alla negligenza e alla sparizione. Zaliani confessore
di vecchie aie deserte, di fossi, di pascoli verdeggianti minacciati dal cemento
e dall'asfalto, attento all'identità dei singoli alberi come alle guarnizioni di
una bellezza precaria, una volta tradizionale e ora quasi arcaica, se non estenuata
in quanto estranea alle tragiche presenze tecnologiche, alle componenti schizoidi
sulle quali in modo ipocrita si interrogano i cattivi dottori al capezzale della
grande malata: l'umanità occidentale.
Zaliani, quindi, tocca sì le vertebre figurative e luminose dei paesaggi, ma anche
quelle sonore, per una coralità formale che possa continuare nella memoria, in ciò
che già sapevamo dei luoghi e in quanto ricorderemo di quei posti una volta osservati
nella traduzione dell'incisore: incidere pacatamente l'insieme reale, e anche il
ritmo delle suscitazioni, la qualità della vita che ne scaturisce, la visione calma,
quieta, non infragilita da ripetizioni stanche o da eccessi romantici; la sua linea
ha una certa severità, il segno è asciutto e preciso, senza bave, lo sfumato è nel
viluppo dei vegetali, felci, pioppi cangianti, o delle nubi, nel fitto tessuto dell'opera
incisona, non nel chiaroscuro a effetto.
Un distendersi di narrazioni non solo a compensazione delle puerili oscenità del
mondo virtuale, delle sofisticazioni da computer, ma per godibile apparizione di
qualche cosa che esiste, che è ancora possibile salvare: l'insieme della natura
rustica, della natura in armonia con l'uomo semplice e intelligente, e la dignità
della mano creativa nella quale persiste la singolarità e la decenza dell'artista.
Non c'è modo di sconfiggere l'avanzata della disperazione di massa, poiché arriva
sotto le mentite spoglie del benessere né di opporsi alla devastazione delle forme
viventi, negli oceani, nelle foreste, nei fiumi, sui monti; è il prezzo dell'odiosa
parola, globalizzazione; il futuro è mortuario e insolente per quell'umanesimo utopista
che sperava conciliare uomo e natura. Ma non c'è modo di tentare, almeno, che il
folle si arresti un poco, sull'orlo dell'abisso, che il declino della poesia non
sia il tramonto della civiltà umana, che con un barlume di spirito puro si salvi
qualcosa sull'arca della saggezza? Noi siamo colpevoli e testimoni di quanto accade.
Non sembri così distante il discorso di un incisore figurativo che non vuol cogliere
altro che mansuete immagini, da quanto si agita nel contemporaneo e nell'attualità:
Zaliani conosce bene tutto il rimanente del linguaggio moderno, ma ha avuto il coraggio,
in un certo senso diresti l'empietà, di inoltrarsi fino al cuore della propria regione,
senza timore di sembrare provinciale -certo non è il solo, anche altri artisti si
addentrano con le loro ragioni operative in analoghe tematiche ha saputo fare una
scelta adeguata alla sua esperienza, alla sua indole e alle sue preferenze di campo.
Sta con le cose che armonizzano con la vita, che non sono originali dal di fuori,
che non scombinano l'ordine delle stagioni intime ed esterne; ma che fanno scoprire
quanta freschezza e genuina sorpresa ci siano negli intrecci spontanei della terra,
nelle cadenze di luce e ombra, nel cielo che riverbera sul prato mentre scatta un
raggio di sole. Vita, insomma, che, sì, fa pronunciare anche il nome di verità,
ma in un sussurro, poiché al di là dell'inquadratura scelta, preme l'indizio del
sogno, il traslucido dell'incantamento o, come chiamarlo?, un piano appena sollevato
nell'inquietudine amorosa, un lago lucente che avvolge e illimpidisce l'ottica fino
alla resa del cristallo e, inclinato appena il prisma, avremmo soltanto luce, non
più profili, schemi e descrizioni, sotto la punta dell'autore una luce che si muove
nei suoni.
Comunque vita che non stride e non annega nella demenza del nuovo per il nuovo;
vitalità della nozione di gioia per una fioritura di primule nei campi, per la festa
della prima neve, ordito di benessere che non sta nel muoversi frenetico, ma, talvolta,
nel contemplare, fermi, l'essere che si evolve nelle luci della giornata, che si
ammanta di bellezza, quella che conosciamo sin da fanciulli, senza sofismi di estetica.
Forse abbiamo parlato poco delle incisioni in sé, nero di stampa su fogli candidi;
ma abbiamo discorso di quella Cultura dell'anima che quasi un secolo fa era insegna
di una collana tra filosofica e letteraria, e ora potremmo forse ripensarla come
messaggio di etica, visto che l'anima è stata abrogata dal nostro tempo e la cultura
è soprattutto scientifica e tecnica (si è sciolto il dilemma tra le Due culture,
letteraria- filosofica o scientifica, con lo strapotere del secondo termine). Chi
come Zaliani silenziosamente incide con la coscienza del proprio luogo-spazio-tempo
e ne ricava immagini limpide, ha diritto a un incrocio meno topico, crediamo, a
una traiettoria più ampia, che sia ragionare sui motivi primi, di ispirazione delle
sue pagine, e sulla destinazione, cioè sulle motivazioni di poetica che le supportano;
certo quando il valore dei fogli è cospicuo, come lo è quello che espone Agostino
Zaliani.