Tutte le voci della pianura nelle incisioni di Agostino Zaliani

Luigi Cavallo

Saremmo tentati, per ciò che riguarda le acqueforti specie degli ultimi anni di Agostino Zaliani, di invitare, per paradosso, oltre che a guardarle ad ascoltarle, a prendere spunto dalle immagini per riudire i suoni che suggeriscono: il placido scorrere delle rogge con il gorgoglio dei mulinelli tra gli sterpi secchi e le gore folte di arbusti, frusciare accarezzante della brezza serotina che piega gli steli dell'erba; il gran rumorio del fogliame che alla stessa ora accoglie il ritorno degli uccelli e si interpone all'aria giocando fra terra e cielo con masse volatili di verde.

Il suono della campagna con qualche battito di lamiera, in un cascinale abbandonato; raschiato e stridulo il barcollare di un cancello sui cardini; la grande e indistinta voce della pianura che si lacera di quando in quando per il richiamo di una cornacchia. Una quiete fatta di bassi continui e di fischi. Mormorare di focolari, di nebbie ovattanti; campane, ruote dei mulini non più usate, pietrame da ripa che dà rifugio ai ranocchi, alle serpi, ciascuno con i suoi rumori.

È abile e discreta la mano di Zaliani che raccoglie questo erbario sonoro; si ferma a scrivere ogni foglia, ogni stelo, il riflesso di una luce sui bordi dei ciuffi di erbaggi, e ancora si dilunga a dare presenza alle ramaglie secche e alle cortine murarie dei casolari rustici animate solo dalle muffe, dalle vene d'acqua. Si potrebbe obbiettare che questo tipo di disegni aveva giustificazione fino a un secolo fa; eppure è proprio nel contesto odierno che tali moderate meditazioni figurative hanno senso, dimensione morale e mentale, stabiliscono approdi di necessità, confermando contenuti umani, stimolando pensieri di contrasto con il restante assordamento, inducono a contenere il nostro vizio di ansia e di disordine, ci fanno, insomma, da guida in un clima che, sembra impossibile, pure era il nostro, è stato il nostro fino a non molto tempo addietro.

Il mito del moderno, del frettoloso, del cenno e via, ignorato per una battaglia persa sul vero, su quel reale che tanto sta a cuore dell'autore da sentirne il turbamento poiché lo sa, lo sente, condannato alla negligenza e alla sparizione. Zaliani confessore di vecchie aie deserte, di fossi, di pascoli verdeggianti minacciati dal cemento e dall'asfalto, attento all'identità dei singoli alberi come alle guarnizioni di una bellezza precaria, una volta tradizionale e ora quasi arcaica, se non estenuata in quanto estranea alle tragiche presenze tecnologiche, alle componenti schizoidi sulle quali in modo ipocrita si interrogano i cattivi dottori al capezzale della grande malata: l'umanità occidentale.

Zaliani, quindi, tocca sì le vertebre figurative e luminose dei paesaggi, ma anche quelle sonore, per una coralità formale che possa continuare nella memoria, in ciò che già sapevamo dei luoghi e in quanto ricorderemo di quei posti una volta osservati nella traduzione dell'incisore: incidere pacatamente l'insieme reale, e anche il ritmo delle suscitazioni, la qualità della vita che ne scaturisce, la visione calma, quieta, non infragilita da ripetizioni stanche o da eccessi romantici; la sua linea ha una certa severità, il segno è asciutto e preciso, senza bave, lo sfumato è nel viluppo dei vegetali, felci, pioppi cangianti, o delle nubi, nel fitto tessuto dell'opera incisona, non nel chiaroscuro a effetto.

Un distendersi di narrazioni non solo a compensazione delle puerili oscenità del mondo virtuale, delle sofisticazioni da computer, ma per godibile apparizione di qualche cosa che esiste, che è ancora possibile salvare: l'insieme della natura rustica, della natura in armonia con l'uomo semplice e intelligente, e la dignità della mano creativa nella quale persiste la singolarità e la decenza dell'artista. Non c'è modo di sconfiggere l'avanzata della disperazione di massa, poiché arriva sotto le mentite spoglie del benessere né di opporsi alla devastazione delle forme viventi, negli oceani, nelle foreste, nei fiumi, sui monti; è il prezzo dell'odiosa parola, globalizzazione; il futuro è mortuario e insolente per quell'umanesimo utopista che sperava conciliare uomo e natura. Ma non c'è modo di tentare, almeno, che il folle si arresti un poco, sull'orlo dell'abisso, che il declino della poesia non sia il tramonto della civiltà umana, che con un barlume di spirito puro si salvi qualcosa sull'arca della saggezza? Noi siamo colpevoli e testimoni di quanto accade.

Non sembri così distante il discorso di un incisore figurativo che non vuol cogliere altro che mansuete immagini, da quanto si agita nel contemporaneo e nell'attualità: Zaliani conosce bene tutto il rimanente del linguaggio moderno, ma ha avuto il coraggio, in un certo senso diresti l'empietà, di inoltrarsi fino al cuore della propria regione, senza timore di sembrare provinciale -certo non è il solo, anche altri artisti si addentrano con le loro ragioni operative in analoghe tematiche ha saputo fare una scelta adeguata alla sua esperienza, alla sua indole e alle sue preferenze di campo.

Sta con le cose che armonizzano con la vita, che non sono originali dal di fuori, che non scombinano l'ordine delle stagioni intime ed esterne; ma che fanno scoprire quanta freschezza e genuina sorpresa ci siano negli intrecci spontanei della terra, nelle cadenze di luce e ombra, nel cielo che riverbera sul prato mentre scatta un raggio di sole. Vita, insomma, che, sì, fa pronunciare anche il nome di verità, ma in un sussurro, poiché al di là dell'inquadratura scelta, preme l'indizio del sogno, il traslucido dell'incantamento o, come chiamarlo?, un piano appena sollevato nell'inquietudine amorosa, un lago lucente che avvolge e illimpidisce l'ottica fino alla resa del cristallo e, inclinato appena il prisma, avremmo soltanto luce, non più profili, schemi e descrizioni, sotto la punta dell'autore una luce che si muove nei suoni.

Comunque vita che non stride e non annega nella demenza del nuovo per il nuovo; vitalità della nozione di gioia per una fioritura di primule nei campi, per la festa della prima neve, ordito di benessere che non sta nel muoversi frenetico, ma, talvolta, nel contemplare, fermi, l'essere che si evolve nelle luci della giornata, che si ammanta di bellezza, quella che conosciamo sin da fanciulli, senza sofismi di estetica. Forse abbiamo parlato poco delle incisioni in sé, nero di stampa su fogli candidi; ma abbiamo discorso di quella Cultura dell'anima che quasi un secolo fa era insegna di una collana tra filosofica e letteraria, e ora potremmo forse ripensarla come messaggio di etica, visto che l'anima è stata abrogata dal nostro tempo e la cultura è soprattutto scientifica e tecnica (si è sciolto il dilemma tra le Due culture, letteraria- filosofica o scientifica, con lo strapotere del secondo termine). Chi come Zaliani silenziosamente incide con la coscienza del proprio luogo-spazio-tempo e ne ricava immagini limpide, ha diritto a un incrocio meno topico, crediamo, a una traiettoria più ampia, che sia ragionare sui motivi primi, di ispirazione delle sue pagine, e sulla destinazione, cioè sulle motivazioni di poetica che le supportano; certo quando il valore dei fogli è cospicuo, come lo è quello che espone Agostino Zaliani.